Quando il test di gravidanza ci rimanda finalmente una lieta notizia, ecco che nella testa di ogni donna cominciano a frullare mille domande e tantissimi dubbi. Non solo sulla gravidanza in se oppure sulle preoccupazioni se si sarà o meno un’ottima mamma per il proprio bambino. Ma anche per quello che riguarda la propria occupazione: se si è donne lavoratrici, fino a che mese di gravidanza si può lavorare?
La questione è molto delicata. Il nostro paese in termine di congedo di maternità è ancora molto indietro rispetto ad altri paesi del mondo, soprattutto di quel Nord Europa che invece concede maggiori garanzie alle donne incinte al lavoro. Così come ai neo papà, che possono contare su un congedo di paternità degno di questo nome.
Ma scopriamo insieme come funziona il congedo di maternità in Italia, a chi spetta, cosa prevedono gli ultimi aggiornamenti e anche qualche bella news per i futuri papà.
Come funziona il congedo di maternità in Italia
Con il termine congedo di maternità si indica il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro concesso alle lavoratrici dipendenti negli ultimi due mesi di gravidanza e nei primi tre mesi del puerperio, dopo la nascita del piccolo o della piccola. L’obbligatorietà è stabilita dal Testo Unico sulla maternità e paternità (decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151): le donne lavoratrici incinte se hanno un contratto da dipendenti devono poterne usufruire e i datori di lavoro non possono assolutamente obbligare le donne a lavorare durante il periodo di congedo per maternità. Dal 14 giugno 2017, con la legge 22 maggio 2017 n° 81, il congedo di maternità non è più obbligatorio per le lavoratrici iscritte alla Gestione Separata. L’indennità sarà comunque corrisposta.
A chi spetta il congedo di maternità?
- Alle lavoratrici dipendenti assicurate all’INPS anche per la maternità
- Alle apprendiste, operaie, impiegate, dirigenti con un rapporto di lavoro in corso all’inizio del congedo
- Alle donne disoccupate o sospese
- Alle lavoratrici agricole a tempo indeterminato o determinato con qualità di bracciante con iscrizione negli elenchi nominativi annuali per almeno 51 giornate di lavoro agricolo
- Alle lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari
- Alle lavoratrici a domicilio
- Alle lavoratrici LSU o APU
- Alle lavoratrici iscritte alla Gestione Separata INPS e non pensionate
- Alle lavoratrici dipendenti da amministrazioni pubbliche
Il congedo di maternità di solito inizia due mesi prima la data presunta del parto e finisce tre mesi dopo il parto. Si può anche chiedere di usufruire del congedo solo un mese prima del parto, previo parere positivo del ginecologo che ha in cura la lavoratrice, per poter usufruire degli altri quattro mesi per prendersi cura del bambino dopo la nascita. In caso di parto gemellare, la durata del congedo di maternità è la medesima.
In caso di adozione o di affidamento nazionale di minore, il congedo spetta per cinque mesi a partire dall’ingresso in famiglia del minore. Per adozioni e affidamenti preadottivi internazionali il congedo spetta per cinque mesi a partire dall’ingresso in Italia del minore, ma può essere fruito anche parzialmente prima dell’ingresso in Italia del minore.
Durante i periodi di congedo di maternità la donna percepisce un’indennità pari all’80% della retribuzione media globale giornaliera calcolata sulla base dell’ultimo periodo di paga precedente.
Se la gravidanza è a rischio, invece, si può chiedere di anticipare il congedo di maternità, così come se le mansioni delle donne incinte al lavoro non sono compatibili con lo stato interessante della lavoratrice.
In caso di interruzione di gravidanza dopo 180 giorni dall’inizio della gestazione o di decesso del bambino alla nascita, la lavoratrice può astenersi dal lavoro per l’intero periodo di congedo di maternità, se non rinuncia a usufruirne.
Quando smettere di lavorare in gravidanza
Come previsto dalla legge, le donne lavoratrici dipendenti e anche chi ha partita IVA ed è iscritta alla Gestione separata, ma senza obbligatorietà in questo ultimo caso, possono smettere di lavorare due mesi prima del parto e ritornare al lavoro tre mesi dopo il parto. Oppure scegliere l’opzione un mese prima e quattro mesi dopo, se le condizioni di salute di mamma e bambino lo consentono, ovviamente.
La donna può smettere di lavorare in gravidanza, però, in qualsiasi momento, se il medico ginecologo lo ritiene opportuno. Se la gravidanza è a rischio, già dalle prime settimane, o se insorgono problemi durante i mesi successivi, la donna incinta ha la facoltà di chiedere l’interruzione del lavoro, per proteggere la sua salute e quella del piccolo che porta in grembo.
La donna sceglie potendo optare per diverse possibilità, ma l’ultima parola spetta sempre al medico ginecologo, l’unico che può valutare se effettivamente la futura mamma è in condizioni di lavorare, se la sua mansione è sicura e se fa bene a continuare fino all’ultimo o forse è il caso che si riposi un po’ in vista del parto. I mesi di congedo precedenti alla data presunta del parto servono proprio a preparare la futura mamma a un momento tanto bello quanto impegnativo.
Lavorare fino al nono mese di gravidanza
Una novità degli ultimi tempi consente alle donne di poter lavorare fino al nono mese di gravidanza. Praticamente fino alla data del parto, per poter tenere i 5 mesi previsti per il congedo di maternità completamente a disposizione per la cura del neonato appena venuto al mondo. Una decisione che ha fatto storcere il naso a molte persone.
La Legge di Bilancio del 2019, infatti, prevede che le donne possono scegliere di usufruire di questa possibilità, a patto che il ginecologo sia d’accordo, dopo aver valutato le loro condizioni di salute. E a patto di poter far marcia indietro nel caso nelle ultime settimane di gravidanza le cose dovessero cambiare.
L’INPS chiede alle donne lavoratrici incinte di presentare una domanda prime dei due mesi che precedono la data presunta del parto, allegando alla domanda un certificato di un medico che attesti la buona salute di mamma e bambino. E del fatto che il lavoro svolto dalla donna non sia un ostacolo al sereno proseguimento della gravidanza.
Se il medico dà parere positivo, le donne possono “astenersi dal lavoro esclusivamente dopo l’evento del parto entro i cinque mesi successivi allo stesso, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro“.
Le donne lavoratrici incinte devono presentare tutta la documentazione sanitaria all’INPS nel corso del settimo mese di gravidanza. In caso di rinuncia dopo aver presentato la domanda, il congedo indennizzabile dall’ente sarà computato secondo la modalità classica, due mesi prima e tre mesi dopo il parto. I periodi lavorati prima della rinuncia rientreranno nel periodo di maternità, ma non saranno indennizzati perché la donna ha effettivamente lavorato.
E il congedo di paternità?
Se fino a poco tempo fa il congedo di paternità spettava solo in caso di morte o grave infermità della madre, abbandono del figlio da parte della madre o affidamento esclusivo del figlio al padre, così come in caso di rinuncia totale o parziale della mamma lavoratrice al congedo di maternità anche in caso di adozione o affidamento, nel 2012 la legge 28 giugno n° 92 ha introdotto anche il congedo obbligatorio e il congedo facoltativo, alternativo al congedo di maternità della madre, per il papà lavoratore dipendente.
Nel 2016 il congedo obbligatorio è stato prorogato con un aumento da due a quattro giorni. Mentre nel 2019 i giorni di astensione dal lavoro concessi ai neo papà sono diventati cinque, da prendere obbligatoriamente. Per l’anno solare 2020, infine, sono diventati 7. I lavoratori devono sfruttarli entro il quinto mese di vita del bambino o di ingresso del minore nella famiglia. Al padre spetta il 100% della retribuzione per i giorni di concedo obbligatorio e facoltativo.
Per quello che riguarda il congedo facoltativo, nel 2020 è solo di un giorno in alternativa a quello richiesto dalla madre.